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IL SISTEMA MUSCOLO SCHELETRICO ED INTEGRITA’: FRATTURA E FUNZIONE SIMBOLICA

La malattia inizia un suo percorso, attraverso le strade del sistema corpo, in maniera silenziosa. Almeno in apparenza. Tutto inizia in noi.

La Scienza ci ha sempre supportato nel cercare, attraverso un ragionamento analitico, il “come” e “perché” dei processi fisiologici. Una spinta più che naturale, questa, alla ricerca inarrestabile dell’origine della vita.

Ci hanno insegnato che la salute è qualcosa di misurabile attraverso strumenti e parametri di riferimento: il sistema cardiovascolare è sano e funziona correttamente se tali parametri fisiologici si trovano all’interno di range, valori per intenderci. Il sistema polmonare gode di buona salute se i polmoni hanno una buona compliance e se ci permettono di assorbire al livello alveolare le molecole di O2 e di eliminare CO2. Stiamo bene, insomma, se “rientriamo” all’interno dei parametri stabiliti. Ma siamo davvero sicuri che questo sia assimilabile a un concetto realistico e sistemico di salute?

Un sistema così complesso, può davvero essere misurato solo ed esclusivamente attraverso un ragionamento meccanicistico? Questa è una domanda che vuole iniziare a porre un freno, a quella ricerca spasmodica di una “soluzione” a tutto. Partiamo, quindi, con l’affermare che “la panacea di tutti i mali non esiste” ma che abbiamo la possibilità di ammalarci di meno, se solo impariamo ad ascoltare il nostro corpo.

L’etimologia della parola “complesso” è intriso della sua magnifica simbologia che maggiormente risponde alla ricerca di una strada che ci porti e ci mantenga nel benessere.

Dal lat. ‘complexus’ (p. pass. di complecti)cingere, tenere avvinto strettamente, e, in senso metaforico, abbracciare, comprendere, unire tutto in sé, riunire sotto un solo pensiero e una sola denominazione (1).

Secondo Olivier Sartenaer i sistemi naturali possiedono proprietà qualificate come emergenti, cioè la loro esistenza non può essere estrapolata o anticipata sulla base di una conoscenza, per quanto completa, delle proprietà del sistema. È ciò che accade nell’interpretare i sistemi cosiddetti complessi. La conoscenza dei meccanismi naturali alla base del nostro funzionamento non può, da sola, risolvere l’enigma della malattia né tantomeno, del sintomo. Necessitiamo, cioè, di includere, nella lettura di questo sistema, l’aspetto emozionale e spirituale.

Attraverso la coscienza sperimentiamo la vita(2), l’esistenza e il corpo, quindi, è parte di questo processo di “coscientizzazione”, così come lo è tutto ciò che fa parte dell’ambiente esterno e interno (emozioni, sensazioni, pensieri).

Possiamo dire che quello che pensiamo condiziona la nostra coscienza e, di conseguenza, anche il nostro agire. Siamo soggetti “passivi” o attivi di ciò che viene a verificarsi nella realtà che viviamo?

Viviamo, cioè, passivamente le condizioni esterne o ne siamo noi stessi creatori? Possiamo affermare che il nostro pensiero è in grado di influenzare costantemente gli eventi, anzi ne rappresenta l’origine.

Attraverso una stretta correlazione tra pensiero, mente e corpo siamo in grado di “suggestionare” tutti i meccanismi fisiologici che si trovano alla base del mantenimento dell’omeostasi organica e dell’equilibrio psicologico. E se è oramai chiaro l’impatto dello stress cronico sul sistema immunitario, grazie ai numerosi studi di psico-neuro-endocrino-immunologia, altri campi di ricerca (3) si stanno già da tempo muovendo anche nello studiare il ruolo della terapia “della parola” nell’alterare i parametri del sistema immunitario e nel migliorare la capacità dell’organismo di combattere le malattie.

La frattura rappresenta, dal punto di vista anatomo-patologico, l’interruzione della continuità della struttura ossea. All’origine può esservi un trauma, una patologia o può rappresentare la conseguenza di un intervento chirurgico.

L’elemento osseo, in una lettura energetica, che si basi cioè sul ruolo simbolico di una malattia e la sua influenza sulla vitalità del sistema, rappresenta la nostra “stabilità”. Abbiamo appreso in passato che il concetto di vitalità di un sistema, può essere anche spiegato come lo stato bioenergetico in cui quel sistema si trova. Ci basti sapere che il concetto di stabilità, in chiave simbolica funzionale è associato alla “radice”, alla capacità di Grounding o radicamento e al rapporto di percezione e integrazione con l’ambiente esterno (la terra). Naturalmente in base al distretto colpito da questo evento lesivo, che porta a una soluzione di continuità del tessuto, la lettura simbolica sarà diversa, così come il suo messaggio.

Quello che rimane essenziale sottolineare è che, a prescindere dal livello in cui è avvenuta questa “interruzione”, il dolore da essa causato e l’inattività forzata che spesso si rende necessaria al fine di rispettare il processo di guarigione, portano a un periodo, più o meno lungo di immobilizzazione e stasi.

Inconcepibile, penseranno alcuni di voi, potersi “concedere” di fermarsi. Le responsabilità, i doveri a cui adempiere e la tendenza “egoica” al controllo, ci hanno costretto, oramai, a reputare impossibile il fatto che il mondo fluisca, che vada avanti anche senza il nostro momentaneo contributo.

Non ci concediamo, in parole semplici, la possibilità di “rallentare il passo”. E, per quanto la mente tenda costantemente al controllo, sul corpo e sull’ambiente esterno, la parte più istintiva di noi, più profonda, intangibile ma preziosa, ci conduce sempre più verso noi stessi, verso la reale guarigione e raggiungimento del nostro vero “sé”.

In conseguenza di questa “intelligenza spirituale”, probabilmente condizioniamo gli eventi a tal punto da arrestarci, improvvisamente, al di là di una apparente volontà.

L’emozione prevalente (e quindi la coscienza) influenzeranno l’evento: in base al distretto corporeo, la lesione ossea avrà un significato simbolico ben preciso, un ruolo, un messaggio. Questo messaggio dovrà essere interpretato in base al vissuto della persona e in relazione al “ruolo” che la struttura colpita, possiede per quell’individuo.

La frattura arriva in “aiuto”, quindi, portandoci in una situazione in cui l’ostinarci a muoverci sarebbe determinante per la nostra guarigione: se mi muovo rischio di “rompermi ulteriormente” (l’energia irrompe nel trauma fisico, tentando di porre un equilibrio al conflitto interno).

Essa ci pone dinanzi alla nostra più profonda fragilità: lo scheletro rappresenta il nostro asse portante, la nostra base e radice, l’elemento di supporto del nostro rimanere “in piedi” ma anche del nostro dinamismo.

La frattura rappresenta un messaggio che il nostro subconscio ci trasmette affinché impariamo l’arte del non muoverci, il riposo del “guerriero”.

Essa ci rende schiavi ma allo stesso tempo ci libera dall’influenza più spietata dell’ego che ci impone di essere costantemente attivi, pronti, reattivi. Dinanzi al dolore evocato al movimento, abbiamo una scelta: frenare la nostra mente, accettare la nostra debolezza, prenderci cura di noi stessi, imparare a essere nutriti piuttosto che nutrire.

Può succedere che il movimento sia tanto esasperato da trasformarsi in immobilità. Ci siamo spinti tanto verso una polarità, una direzione, da metterlo in discussione. Così, la frattura viene a rappresentare un modo per dirigersi verso la polarità opposta o, comunque, per cercare di apportare armonia al sistema.

Il trauma meccanico che crea la rottura del segmento osseo non rappresenta, quindi un elemento “esterno” a noi stessi, qualcosa che viene fuori da noi ma, piuttosto, come la proiezione di un nostro sentire, più intimo. Difficilmente ci responsabilizziamo. In generale nella vita. Ci carichiamo sicuramente di pesi e oneri ma non accettiamo la responsabilità che ne deriva, per cui questi finiscono, prima o poi, per “schiacciarci”.

Anche la sofferenza diviene nostra responsabilità, “se soffriamo, soffriamo a causa di noi stessi… siamo vittime e rei delle nostre stesse volontà” (4) – sosteneva R. Dalhke. Qualcuno potrebbe dire che siamo responsabili del nostro dolore perché esso non è altro che lo specchio della resistenza che opponiamo al processo di evoluzione e guarigione del nostro inconscio.

Lo stesso Freud affermava che i traumi e/o incidenti derivino da una intenzione inconscia (5). La psicosomatica parla, addirittura, di una “personalità da incidente”, cioè quella struttura psichica che tende a elaborare i conflitti attraverso gli incidenti. E, anche se non rientriamo all’interno di questa personalità (lo si spera), ciò che è importante è l’insegnamento che si cela dietro un trauma. In questo caso la frattura è una vera e propria “rottura”, uno strappo, una forzatura nel tentativo di capire noi stessi, di arrestarsi ed elaborare le nostre problematiche e/o conflitti.

Elaborazione e dolore sono in qualche modo collegati, a mio vedere: elaborare dal latino(6) “ottenere con fatica e cura”( dadi eex e laboro, “affaticarsi“, a sua volta da labor, “faticasforzolavoro“). Il dolore ci costringe alla chiusura in noi stessi (tipicamente si associa una postura in flessione) che ha, in un’interpretazione simbolica il ruolo potenziale di portarci verso la “fonte” del conflitto scatenante il sintomo. Il dolore ci costringe a non muoverci, a prenderci cura di noi stessi, a guardare a noi: durante questo periodo allora diventa possibile elaborare, cioè analizzare.

La frattura può essere interpretata come un’interruzione che si manifesta a seguito di un’estrema mobilità (il polo opposto diventa l’immobilità forzata, durante la convalescenza). Abbiamo esagerato nel caricarci e l’osso, che è emblema della “solidità” funzionale al sostegno, rappresenta lo strumento attraverso il quale la nostra psiche e anima riemergono e si mostrano nella materia.

La lesione dell’osso appare come una linea di “demarcazione”: essa rappresenta la fine di un ciclo, di un’abitudine, di un percorso che si manifesta per portare dall’inconscio al conscio, la nostra verità, quella che tendiamo a nascondere a noi stessi, sotto numerosi strati di pelle e che soffochiamo quando cerca di esprimersi, attraverso le emozioni.

L’utilizzo dei bastoni canadesi, in caso di frattura degli arti inferiori, crea una sorta di inversione di ruolo funzionale: gli arti superiori si incaricano del sostegno, della solidità di appoggio che non avviene più attraverso un contatto diretto con il suolo ma, al contrario, sempre più distante. Il radicamento lascia posto, momentaneamente, a un disagio esperito dal non poter utilizzare correttamente la “presa” con la terra, attraverso i piedi o attraverso una corretta dinamica dell’arto inferiore.

L’arto superiore, il cui ruolo funzionale è tutt’altro che quello di contatto con l’elemento radicante, si appesantisce, dovendo sostituire il suo caratteristico movimento etereo e fluttuante che ci permette la relazione con l’ambiente esterno, per necessità di “sopravvivenza”. D’altronde, anche questa è una forma di esperienza percettiva, psicologica, inconscia: essa rappresenta una lezione. Una volta compreso il messaggio che ci è destinato, l’immobilità, il senso di limitatezza e la rabbia derivante dalla privazione della nostra libertà di movimento e autosussistenza, vengono meno, lasciando spazio a una nuova consapevolezza: ogni rottura ferma il tempo e ci concede la possibilità di ascoltare noi stessi, di imparare la lezione che ci serve per diventare sempre più autentici.

Vogliamo sostenerci, contenerci, autonomamente? Desideriamo essere, in prima persona, perno dei nostri progetti, ambizioni, bisogni e desideri? Con quanta esasperazione ci siamo ostinati a perseguire un percorso o con quanta rigidità? Ed è qui che lo “schema mentale” viene interrotto, con la speranza che ne venga ripristinato un altro, più aderente alle richieste “interiori”.

Lo scheletro rappresenta “l’impalcatura” del corpo che fornisce sostegno ma è anche il mezzo che dà origine al movimento, attraverso la presenza delle articolazioni e all’inserzione della fascia, dei tendini, dei legamenti e muscoli.

In esso si realizzano il sostegno, la protezione e l’origine del nostro incedere, della strada che decidiamo di percorrere, delle emozioni che sperimentiamo; esso è luogo ove le esperienze vissute si “sedimentano”. Pensiamo un po’ all’attività metabolica tra osteoclasti e osteoblasti, le cellule responsabili del metabolismo del tessuto osseo e della formazione della matrice ossea: le nostre esperienze si accumulano e noi ripeschiamo a esse continuamente, le modelliamo per creare la nostra “armatura interna”, la nostra struttura psichica e fisica. Questo processo non vi fa pensare al ruolo di “riserva di calcio” che il tessuto osseo possiede? Così come noi attingiamo al passato e all’esperienza, il nostro sistema attinge da se stesso per rimanere stabile e funzionale.

Il sistema scheletrico deve essere solido ma flessibile (proprietà quest’ultima conferita, in parte, dalle fibre collagene di tipo I). Ed è grazie a un corretto equilibrio tra queste due caratteristiche che esso mantiene efficacemente il suo ruolo. La nostra propensione a una maggiore “flessibilità” o “rigidità” si manifesta con una determinata patologia ossea.

Una frattura vertebrale, per esempio, è l’espressione sul piano materiale del raggiungimento di un punto di “saturazione” del peso che sosteniamo e che non siamo più in grado di sopportare o non vogliamo (la componente volontà è essenziale in qualsiasi manifestazione emozionale sul corpo, in quanto un peso non è considerabile tale, dal punto di vista energetico e psicosomatico, se davvero vogliamo sostenerlo).

Pensate al concetto di stress: siamo arrivati a distinguere uno stress “positivo” da uno stress “negativo”, definendoli rispettivamente come eustress e distress. Nulla al mondo è “assolutamente positivo o negativo”. Ciò che è davvero significativo è l’effetto che sortisce su di noi, in base alla personale scala di bisogni, di necessità e in relazione alla rilevanza dell’evento. Questi alcuni dei fattori che daranno origine a reazioni neurofisiologiche, psicologiche ed emozionali.

Se non voglio più sostenere, al livello inconscio, un determinato carico, la frattura si palesa come un segnale acuto e invalidante, che non lascia molto spazio a “soluzioni alternative” se non quella di scegliere di fermarsi.

Essa ripesca nella nostra stessa fragilità strutturale, affinché questa venga portata alla coscienza e trasformata. Ed è così che il punto più debole, il “locus minoris resistentiae”, rappresenta il punto di rottura di una resistenza e stabilità anatomica, fisiologica, psicologica, date oramai per scontate.

Il dolore presente è lancinante, ci toglie il fiato e ci costringe a metterci in discussione dinanzi a noi stessi. La frattura come sintomo, non deve essere valutata come una condanna né una punizione ma come una grande opportunità per un riposo consapevole, durante il quale riconosciamo a noi stessi la fine o l’inizio di un ciclo vitale e/o accettiamo la nuova strada che stiamo intraprendendo.

Un’estremizzazione dell’invito al “farsi le ossa”, che gli antichi saggi rivolgevano ai giovani, ci permetterà, se lo vogliamo, di ricostruire una “base solida” sul quale continuare a edificare il nostro templio, i nostri progetti e la nostra strada.

Referenze

1.     P.Magrassi, Difendersi dalla complessità, op. cit., pag. 130;

2.     Rossella Panigatti – I sintomi parlano, Edizioni TEA, 2014;


3.     Jill Littrell – The mind-body connection: not just a theory anymore, 2008;


4.     Rudiger Dahlke – Malattia e destino, Edizioni Mediterranee, 2014;


5.     Sigmund Freud – Psicopatologia della vita quotidiana Newton Compton Editori, 2014;


6.     Wikizionario, etimologia ‘elaborare’ – https://it.wiktionary.org/wiki/elaborare.